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"OMISSIONI"

Comunità Cristiana di Base di san Paolo - Roma                                      22 novembre 2009

Gruppo Montesacro                                                  

Commento letto da Anna Cavallaro

Bella l’immagine nel brano  di Simone Weil di questo granello di luce che possiamo chiamare Dio o Gesù o coscienza o consapevolezza o come vogliamo, che illumina la verità, la forza della verità; troppo per molti di noi perché richiede scelte radicali tali da sconvolgere la nostra vita. Ma anche senza giungere agli estremi di questa forza,  ne possiamo avvertire un’altra, meno dirompente, che è in grado scuoterci in profondità. Quella  capace di farci radicalmente inquietare.  Di un’inquietudine che non è ansia, angoscia, senso di inadeguadezza, inquietudine dannosa e sterile. E’ un’inquietudine positiva, è la forza che ci tiene vigili, svegli e responsabili e ci impedisce di “accomodarci nella nostra vita” egoisticamente, che significa accomodarci nel torpore della comodità o nella certezza di chi si crede nel giusto e  si sente migliore e diverso/a da tanti altri/e ( facile in questa nostra società). Questa  certezza può condurre  all’ assuefazione e non tanto a volgere gli occhi altrove, quanto piuttosto a dare uno sguardo frettoloso e disincantato.  Ma non è anche questo è un accomodarsi?

Dovremmo accettare come cifra del nostro essere alla sequela di Cristo la scomodità di essere inquieti/e dinanzi al supruso,all’ingiustizia,alla negazione dei più elementari principi di umanità e convivenza,  accettare la responsabilità e la difficoltà di tradurre quest’inquietudine in parole e in fatti tutte le volte che siamo chiamati/e a farlo e siamo nella condizione di farlo.

Nel brano del Vangelo di Matteo piuttosto che fermarci sulla condivisione della preghiera, abbiamo considerato la relazione umana che nel Getsèmani vivono Gesù e i suoi discepoli.

Gesù è in un momento durissimo della sua esistenza, è affranto, umanamente pieno di angoscia e di paura per tutto quello che deve affrontare.  Restate svegli con me , non mi lasciate solo a pregare. Ma i discepoli non ascoltano si addormentano. Non avete potuto vegliare con me nemmeno un’ora? Ve l’avevo chiesto e non l’avete fatto. Quello di Gesù non è un rimprovero ma solo dolore, delusione e una grande solitudine. Non è tanto un’ora nella vita di una persona, non è un grande impegno, ma basterebbe quello per non lasciare solo chi soffre ed è già tanto. Tre volte Gesù si allontana a pregare e ogni volta trova i discepoli che dormono; addiruttura non riescono a tenere gli occhi aperti. E la terza volta: ma come, voi ancora dormite e riposate? Il  momento terribile è ormai vicino.

E’ così difficile rimanere svegli/e mentre  chi ci è prossimo, chi ci è vicino, vicinissimo  vive nella sofferenza, nell’ingiustizia, nelle discriminazioni, nella solitudine e ci chiede un pezzetto di noi, del nostro tempo? I prossimi sono qui,  lungo il percorso della nostra vita e nel posto in cui viviamo, luogo privilegiato e possibile di relazioni.   Vicino a noi, nella nostra città, nel nostro quartiere, a Piazzale Ostiense, nelle nostre case, nella nostra comunità:  sono gli afgani,  i lavavetri, i rom, gli omosessuali aggrediti, sono i ragazzi e le ragazze richiedenti asilo della scuola di italiano, è Fausto, che sta là fuori. Chiedono  solo di essere ascoltati, di essere capiti nel loro particolare modo di essere,  chiedono la nostra mano  in senso ideale e reale, chiedono che ci uniamo alla loro voce che nessuno mostra di sentire.

E se fosse proprio la prossimità a definire la misura della nostra responsabilità , intesa non come colpa ma come un assumere su di sé?     Non ce a facciamo a restare svegli/e, nemmeno un’ora?

Sono certa che fra noi, proprio perché il suo percorso l’ha condotto/a qui, ci sia chi è stato/a  nella condizione di rispondere ad una richiesta come quella fatta da Gesù ai suoi discepoli e in quell’occasione non ha dormito. Ha risposto. Ha dato la sua mano da stringere a chi gliela chiedeva per fargli capire che non era solo/a a lottare contro il dolore, l’ingiustizia, le discriminazioni. Conosciamo il valore di quel momento per noi e  per l’altro o l’altra. L’abbiamo intravisto quel frammento di luce veloce. Forse poi l’abbiamo perduto e ritovato e perduto di nuovo nella nostra fragilità. Ma non possiamo più ignorarlo.