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Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma

“PER UNA CHIESA CHE PREGA E OPERA LA GIUSTIZIA”

 

1.         Una Chiesa che prega

Nei primi tempi della vita degli uomini e delle donne che, in comunità, decisero di correre il rischio di mettersi alla sequela di Gesù, giustiziato sulla croce e risuscitato da Dio, era uso scriversi in termini come questi: alla Chiesa di Dio che ”soggiorna” a Corinto…, alla Chiesa di Dio che “soggiorna”  a Roma...

     Il termine greco che sta dietro la parola “soggiorna” è paroikousa (da tale parola deriva “parrocchia”) e designa la dimora provvisoria dell’esiliato, del colono o dello straniero, in opposizione alla residenza di pieno diritto del cittadino che, in greco, si dice katoikein (Giorgio Agamben, «La Chiesa e il Regno», discorso presso la cattedrale di Notre Dame, Parigi, 8 marzo 2009).

    La Comunità cristiana di base san Paolo che soggiorna a Roma, si rivolge con quelle parole alle cristiane e ai cristiani che, soggiornanti nelle diverse città d’Italia, si ritrovano in questi giorni a Napoli; lo fa, perciò, con la consapevolezza della  sua  parzialità e precarietà; e anche  con la consapevolezza della ricerca della fede in Gesù che riempie, da anni, i suoi giorni. Una ricerca liberante, nella quale tutti e tutte siamo chiamati/e a vivere la fede fuori dal tempio, a vivere la fede nel tempo senza tempio. Ma dove sta questo luogo?

     Dopo lo «scandalo» della cacciata dei venditori dal tempio, chiesero a Gesù un segno di autorevolezza. Egli rispose: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». «Parlava – chiosa l’evangelista- del tempio del suo corpo» (Gv 2. 19-21).

     Dunque, è il corpo di Cristo risorto il luogo del nuovo culto in spirito e verità. E siccome «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», e «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 25-40), il luogo del culto in Spirito e Verità è anche e contemporaneamente il corpo-la vita-l’umanità degli uomini e delle donne di questa terra.

     Dice il Signore: «Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3, 8). In greco, come in ebraico, la stessa parola – vento/soffio [ruah, nella Bibbia, è parola femminile] – designa il vento e lo Spirito: il luogo di Dio, nel tempo del Cristo risorto, è dunque nel continuo, faticoso, gioioso ascolto (ricerca e scoperta mai definitive) della parola: non solo quella già scritta, ma anche di quella non ancora o che mai la sarà, perché è già impressa nel volto di ogni fratello e di ogni sorella.

     Ma come faremo, come riusciremo a vivere la problematicità di questo tempo nuovo? «Dovete rinascere dall’alto» (Gv 3, 7), dice il Signore. Il nostro non è un ricevere passivamente, ma  un forte impegno (un agire)  personale e di comunità. E’ un cammino, individuale e comunitario (chiesa) che incontra passaggi aridi e percorsi di solitudine.

    E’ toccato anche a Lui, ai bordi di un pozzo in una campagna aspra, di avere sete e, però, nulla per attingere. «Donna, dammi da bere» (Gv 4, 7), chiede; inatteso ed inconsueto. E’ la sete dei popoli per i quali i pozzi e i luoghi dove c’è acqua determinano gli itinerari di uomini, donne e animali. E,  nella  letteratura biblica, anche percorsi  religiosi e di fede.

     E’ la sete di un messia la cui consapevolezza di sé non è definitiva, se non quando riesce a dire: «Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito» (Lc 23, 46). E’ la sete delle donne e degli uomini del nostro tempo che interroga, come ogni comunità ecclesiale, anche la nostra Comunità cristiana di base, la quale dovrebbe dunque senza posa sforzarsi di vivere, interpretare e testimoniare, sempre ovviamente ben conscia dei suoi limiti e delle sue inadeguatezze.

    E’ la nostra sete. E’ la sete di una Chiesa che prega.

 

2.         Come prega una Chiesa che prega

Una Chiesa che prega è – in ogni tempo e in ogni luogo – una Comunità che si lascia interrogare dalla Parola e che non dimentica  mai che la Parola è dentro e fuori di lei, dentro e fuori di ciascuno/a dei suoi componenti. La Parola viene, oggi come ai tempi di Gesù di Nazareth, dallo straniero, dall’emigrato, dallo zingaro, da chi è senza diritti e, sulle strade della Palestina come su quelle delle troppe periferie del mondo, rischia ogni notte di non vedere il giorno che viene. E questa Parola, prima di essere consolazione, è denuncia e condanna della violenza che uccide, spesso nell’indifferenza delle Chiese, a volte ancora nel nome di un Dio/dio che non può essere il padre del Crocefisso ma un nuovo vitello d’oro che, ad esempio, si chiama «sicurezza nazionale».

    La libertà di figli di Dio, quella che Gesù ci ha riconfermato quando ci ha ricordato che solo il Padre è padre nostro, chiama ognuno di noi, donna o uomo, singolo/a o comunità, ad una responsabilità diretta, senza mediazioni o intermediari e senza distinzioni di genere.

     Per questo nella nostra Comunità, e certo consapevoli dei nostri limiti, ci sforziamo di condividere i carismi della predicazione e dell’esegesi biblica e ogni altro carisma che lo Spirito suscita; di rendere attuale il significato profondo dell’Eucarestia al di là del segno rituale; di accostare la Parola alle parole degli uomini e delle donne del nostro tempo difficile e, soprattutto, di misurarci con i segni parziali della liberazione che non è mai, totalmente, di questo mondo, ma che, certo, è intrecciata con la giustizia di questo mondo.

     Ci confessiamo in ricerca: facciamo appello alla comune memoria del Concilio Vaticano II, agli insegnamenti di quelli che riconosciamo appartenere alla tradizione profetica del nostro tempo (Balducci, Mazzolari, Milani, Turoldo, Romero, Luther King, Rachel Corrie, Panikkar…) e a tutte le voci delle Chiese cristiane che, proprio da Bonhoeffer in poi, ci hanno aperto gli occhi sulla relatività di ogni confessione religiosa a partire dalla consapevolezza che Gesù, ebreo di Galilea, non è venuto fra gli uomini per fondare alcuna religione, e nemmeno una Chiesa già delineata esattamente nelle forme e nelle concezioni che le varie comunità cristiane si sono date, tutte storicamente relative; infatti, noi riteniamo che Gesù sia venuto precisamente per annunciare il Regno di Dio, e cioè il fatto che la misericordia dell’Altissimo straripa operando nel mondo e, dunque, per testimoniare a tutti e a tutte, in ogni tempo e in ogni luogo, l’amore sovrabbondante di Dio,  l’Ineffabile – o, come lo chiama la pastora Elisabeth Green, lo Sconfinato - che a noi piace vedere come Padre/Madre. Anche per questo ci ha scandalizzato che, tra i “delitti più gravi” elencati dal documento vaticano del 15 luglio che si riferiva soprattutto alla pedofilia del clero, sia stata inserita anche la concelebrazione dell’Eucaristia con “ministri delle comunità ecclesiali che non hanno la successione apostolica e non riconoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale”. Un’affermazione drastica che ostacola l’ecumenismo.

     Ritrovarsi con le altre comunità che soggiornano in altri luoghi è un’occasione per uno scambio fruttuoso che vogliamo cogliere, nella «convivialità delle differenze» (don Tonino Bello), non però per distribuire o ricevere patenti di ortodossia o anatemi di condanna; noi sappiamo, infatti, che la nostra è un’identità fragile, esposta alle intemperie della storia, ma ugualmente confortata da una speranza che vogliamo condividere.

     Leggiamo la Bibbia (grazie al Concilio, e cercando di fare un’esegesi corretta ed appropriata delle Scritture) e lo facciamo con l’avidità curiosa dei contadini di Lutero che, misurandosi con le pagine scritte, e fino ad allora negate, uscivano dalla loro ignoranza secolare; ma lo facciamo anche con l’atteggiamento critico e storicizzante di chi si confronta con l’informazione martellante e globalizzata  del nostro secolo, e si interroga se e come quelle parole possano, ancora oggi, interpellare uomini e donne e dare loro un messaggio di salvezza contro l’acquiescenza verso ogni potere costituito, soprattutto se usa strumentalmente la fede per legittimarsi.

     Cerchiamo poi di non dimenticare che il Vangelo non è solo storia di «parole», ma di atti, gesti e scelte di vite vissute. «Non chi dice: “Signore, Signore…”» (Mt 7, 21):  se l’esegesi delle parole di Gesù è ancora fonte di studio per gli specialisti, sono i suoi gesti, il suo fare, il suo essere «nostro fratello» che costituiscono, per chi vuol farsi Chiesa, uno stimolo permanente e non equivocabile: verso tutti coloro che cercano giustizia e pace.

    Da qui il tentativo, difficile e contraddittorio, di leggere la sequela di Gesù alla luce dei bisogni degli ultimi della terra. Ed è questa la sfida che ci interroga ogni volta che spezziamo il pane e beviamo il vino nelle nostre assemblee eucaristiche.

 

3.         Chi è il giusto e chi è l’operatore di giustizia

I/le seguaci di Gesù non hanno ricette prefabbricate per risolvere i problemi del mondo: ma possono e debbono, laicamente, affidarsi all’intelligenza, alla riflessione e al dialogo con tutte le persone, donne e uomini di buona volontà, per cercare insieme di fare la scelta giusta nella risoluzione dei conflitti, nel rispetto della legalità internazionale, nella costruzione della pace là ove essa è ferita, nella realizzazione di progetti di vita e di umanizzazione: solo così, nell’operare la giustizia, si incontrano i giusti.

     Per chi scelga l’Evangelo come stella polare della sua vita, «il Giusto» ha un nome preciso: Gesù Cristo. Infatti, mentre le Scritture cristiane qualificano come “giusto” più di un personaggio –  Giuseppe, sposo di Maria; il profeta Simeone; Giuseppe di Arimatea; il centurione Cornelio…– solo Cristo affermano come «il» Giusto (Atti 3, 14; I Pt 3, 18).

     Ne consegue che i discepoli e le discepole di Gesù debbono ispirarsi a Lui nel loro operare, pur sempre sapendo che grande, invalicabile sarà la distanza tra Lui e noi, tra la nostra opacità intrisa di contraddizioni e il suo agire puro come un diamante. Del resto, la consolazione di noi mendicanti è proprio che Egli, il Giusto, renda giusti anche noi peccatori.

     L’operatore di giustizia, cioè chi cerchi di vivere l’evangelo nelle contraddizioni della storia, vorrebbe operare, qui e ora, come Lui avrebbe operato. Ma, per fare questo, ognuna ed ognuno di noi deve assumersi le sue responsabilità, perché deve fare, a proprio rischio e pericolo, una mediazione – storicamente e culturalmente condizionata – tra il modello Gesù, con gli unici principi assoluti, indisponibili e non negoziabili del discorso delle beatitudini, che si riassumono poi nel comandamento dell’amore, e la loro completa attuazione.

      Tendere questo arco tra l’assolutezza dell’evangelo e la sua incarnazione nella realtà cangiante, è la sfida che tutti i giorni ogni seguace di Gesù deve affrontare. Se tutto fosse già scritto, a ogni discepolo/a spetterebbe solo il compito – pur sempre faticoso ma, almeno, chiaro – di concretizzarlo. Non è così, invece: perché solo da una analisi della realtà, e senza avere a disposizione diversi, più ampi e più appropriati strumenti di chi cristiano non sia, i cristiani possono tentare di sapere che cosa significhi – a Gerusalemme o a Khartum, a New Delhi o a Brasilia, a Roma o a Washington, a Mosca o a Sarajevo - costruire la pace e operare per la giustizia.

    Consapevoli della complessità dei problemi e della nostra inadeguatezza, noi, nel nostro piccolo, abbiamo comunque sempre cercato di aprirci alla solidarietà nel solco aperto dalle donne e dagli uomini che, in molte parti del mondo, si impegnano per la pace nella giustizia. Memori, anche, di quanto affermato dal Concilio Vaticano II: “Non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (Apostolicam actuositatem, 8). Per questo ci sentiamo debitori nei confronti del popolo palestinese, dei bambini e delle donne di strada del Guatemala, dei rifugiati richiedenti asilo politico e di quanti altri inquietano le nostre coscienze di credenti.

 

4.         La Chiesa come Comunità che opera per la giustizia

Rivolgendosi al nipotino che stava per ricevere il battesimo, Dietrich Bonhoeffer scrive: «Oggi tu sarai battezzato cristiano. Su di te verranno pronunciate tutte le grandi, antiche parole del messaggio cristiano… La nostra Chiesa, che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza, quasi essa fosse il suo proprio fine, è incapace di farsi portatrice della Parola riconciliatrice e redentrice per gli uomini e per il mondo. Ed è  per questo che le parole antiche devono svigorirsi e ammutolire e il nostro essere cristiani si riduce oggi a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia» (da Resistenza e resa, Bompiani 1969).

     Il linguaggio scelto da Bonhoeffer non lascia dubbi e neppure «scampo», ieri e oggi. Quel pregare deve riconfigurarsi  in un ambito di silenzio («ammutolirsi») delle parole e dei riti; e in questa scelta di  «resa», ritrova il suo spazio naturale: la «resistenza» dell’operare la giustizia tra gli uomini. Noi lo sappiamo: la radicalità di questa scelta da parte di colui che ha lasciato scritto quelle parole, è stata totale: il suo sacrificio si è fatto preghiera.

     In una lettera del 30 aprile 1944, quindi negli stessi giorni del messaggio al nipote, il prigioniero Bonhoeffer aveva scritto: «Il problema che non mi lascia mai tranquillo è quello di sapere che cosa sia veramente per noi oggi il cristianesimo o anche chi sia Cristo. E’ passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini tramite le parole (fossero anche teologiche o pie), così come è passato il tempo della interiorità e della coscienza , cioè il tempo della religione in generale».

     La nostra Comunità, anche cercando – sia pure alla lontana! – di ispirarsi a quel grande testimone della fede e della sequela di Cristo, desidera  interrogarsi con voi: quali sono, ora, i luoghi dell’operare la giustizia fra le donne e gli uomini in questo nostro paese? E quali, per operare la giustizia nella Chiesa e nelle Chiese?

     Avvertiamo oggi le difficoltà che la forma di governo storicamente più evoluta, la democrazia, incontra, in quanto ridotta a ricerca esasperata del consenso, a porre limiti alla partecipazione cosciente, a esercitare disprezzo per ogni forma di educazione a valori collettivi di civismo e etica pubblica. L’esaltazione del «privato» come dimensione dell’agire politico, la cooptazione  come metodo opaco di selezione di una classe dirigente che, lungi dal considerare l’incarico pubblico un servizio provvisorio e reversibile, considera ogni acquisizione di autorità un appiglio dal quale tessere una rete vischiosa di legami intrecciati con tutti i gangli del potere. E fra questo, spesso nelle sue pieghe più nascoste e oscure, si incontrano uomini della Chiesa cattolica divenuti profeti di traffici che spaziano dalla finanza alla speculazione fondiaria, alle perversioni sessuali.

     Il silenzio è veramente assordante; i gesti dell’indignazione ormai dimenticati. Se qualche voce si leva a rivendicare virtù povere, valori a lungo perseguiti, essa non proviene quasi mai da chi, insieme alla Comunità, dovrebbe esercitare il dono della profezia.

      Non possiamo, qui,  approfondire oltre questo riflettere sulla polis: ma è in questa cornice, a nostro parere, che ovviamente vanno inquadrate anche le riflessioni sulla Chiesa romana e sulla commistione tra crisi della democrazia  e deriva delle strutture istituzionali della Chiesa stessa

     Riteniamo, peraltro, non pertinente la continua, quasi puntigliosa ripetizione che viene fatta  nella lettera di invito a Napoli (come del resto già veniva fatto per Firenze I e II): e, cioè, la distinzione tra «dissenso» e «disagio», tra la libertà di denunciare i mali della Chiesa cattolica e la timidezza nel fondare sull’evangelo una tale libertà. Ci sembra, infatti, che la prassi di contribuire alla costruzione della Comunità, anche attraverso limpidi dissensi costruttivi,  sia “normale” per chi segue Gesù, come ci insegna Paolo che ad Antiochia “resistette” davanti a Pietro, un Pietro già investito, secondo Matteo, del potere delle chiavi, perché “aveva evidentemente  torto” (Gal 2,11); l’apostolo, infatti, invitava tutti i fedeli di Tessalonica, e non solo qualcuno tra loro, ad “esaminare  ogni cosa e a tenere ciò che è buono” (I Tess 5,21). Un tale modo di agire, anche oggi, non dovrebbe mai essere interpretato come un tentativo di fondare “un’altra Chiesa”, mentre si tratta, come andiamo dicendo da sempre, di contribuire a rendere “altra”, nello spirito evangelico,  la nostra Chiesa.

     A noi sembra, dunque, che, senza attardarsi a definire il “genere letterario” delle proprie critiche nella comunità ecclesiale, sia imperativo denunciare con pacata risolutezza, da adulti, e senza remore, alcune prese di posizione delle gerarchie ecclesiastiche che – prescindendo dalle intenzioni soggettive che naturalmente non sta a noi giudicare – fondatamente ci sembrano estranee all’evangelo e ci appaiono come colpi di maglio contro la giustizia:

    + 1° - l’appello delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche ad un loro preteso mandato divino per interpretare ultimativamente la cosiddetta «legge naturale» al fine poi di tentare, di conseguenza, di fare imporre, nella legislazione civile, normative che di fatto traducano erga omnes il punto di vista della Santa Sede o della Conferenza episcopale italiana;

    + 2° - l’imposizione morale, in nome di Dio, e appellandosi alle coscienze, ai fedeli, e tendenzialmente perfino ai «laici» (invocando, per questi, la ragionevolezza) di determinate scelte, come l’astensione dalle urne nel referendum del 2005 sulla fecondazione assistita;

    + 3° - il diuturno lavorio, esplicito e/o sotterraneo, dei vertici ecclesiastici cattolici per far sì che il parlamento non legiferi liberamente sulle unioni civili,  sul testamento biologico, sulla libertà religiosa, ecc.

    + 4° - la conseguente trasformazione dell’annuncio del Vangelo nella instancabile promozione del Cattolicesimo come religione civile ritenuta garante di un consorzio civile di cui si disconosce, di fatto, l’autonomia. Di quella religione, costituisce espressione esemplare la battaglia sul crocifisso nelle aule scolastiche – autentica nuova crociata – con la pretesa o la illusione di farne anche una delle manifestazioni fondanti la cosiddetta «nuova evangelizzazione» dell’Occidente secolarizzato; e questo mentre partiti al Governo, che formalmente si richiamano al Cristianesimo, con le loro leggi, le loro omissioni e le loro complicità con governi nordafricani lasciano morire molti poveri Cristi, i veri crocifissi di oggi;

     + 5° - il non troppo scoperto baratto tra il compiacimento per le leggi “cristiane” ottenute e il silenzio di fronte ad una devastante distruzione dell’ethos politico e sociale operato da una classe dirigente che, mentre irride i precetti morali della Chiesa romana nella propria vita, si presenta, non denunciata dal potere ecclesiastico, come la vera rappresentante dei “valori cristiani”.

     Se, di fronte a scelte come queste, manifestazioni evidenti del tradimento del Vaticano II,  condotte con tenacia e costanza – cioè come indirizzo strategico per il modo di presenza della Chiesa cattolica in Italia – potenziate sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e ulteriormente sviluppate sotto quello in corso, noi tacessimo, allora… parlerebbero le pietre. Noi riteniamo (ma ci farà piacere, naturalmente, confrontarci in merito con altre voci e con altre prospettive) che «pregare e fare ciò che è giusto» comporti, oggi, gridare alla luce del sole che compito proprio di tutti e tutte nella comunità ecclesiale, non è quello di interpretare la «legge naturale», ma solo quello di annunciare, cercando di viverle, le Beatitudini, gli unici princìpi non negoziabili che il Giusto ha lasciato ai suoi discepoli e alle sue discepole.

     Al contrario, fare discorsi astratti, criptici, che non aiutino i credenti nel Dio di Gesù Cristo a liberarsi da gravami morali e pesi psicologici estranei all’Evangelo, pare a noi un atteggiamento remissivo ed omissivo di cui dovremo un giorno rispondere. E’ tempo di parlare: con umiltà, con responsabilità, con coraggio. Perciò, proprio per amore della comunità dei credenti, non taceremo.

     E, a noi sembra che, per raccogliere e sviluppare i moltissimi stimoli che vengono da tante parti della Chiesa cattolica e delle altre Chiese, sia giunto il tempo per avviarci tutti e tutte insieme, nella molteplicità dei carismi, verso un “Concilio del popolo di Dio” che ci permetta di impegnarci coralmente affinché anche oggi possiamo ri-udire ciò che lo Spirito dice a tutte le Chiese cristiane e apprendere il coraggio indispensabile per vivere e annunciare l’Evangelo di Gesù. Sappiamo bene la difficoltà dell’impresa ma, come cinquant’anni fa papa Giovanni ebbe il genio dell’”irripetibile” Vaticano II, forse è giunto il tempo per progettare un altro, diverso e corale Concilio, aperto a tutti i carismi e le speranze.

          Domenica 19 settembre, a Napoli, tutti insieme celebreremo  l’Eucaristia:  cosa vivremo insieme e cosa e chi e quanto metteremo in comunione?  Noi pensiamo che la deriva della Chiesa cattolica nel nostro paese, ma non solo, sia la conseguenza dell’oblio di una fondamentale scelta conciliare, alla quale è urgente tornare: l’opzione fondamentale della povertà – spoliazione gioiosa di potere, di ricchezze e di legami adulterini con le potenze di questo mondo – come precondizione dello spezzare il pane e la parola.

 

Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma

    Roma,  5 settembre 2010