Dal ‘bene comune’ ai ‘beni comuni’.

Un modello di analisi e un bene fondamentale: l’acqua.

Dal ‘bisogno’ al ‘diritto’.

Riccardo Petrella[1]

Coordinatore dei comitati Nazionali per il contratto Mondiale dell’Acqua

Università di Leveun e Bruxelles (Belgio)

Sintesi

La privatizzazione dell’acqua è il paradigma di tutta una serie di fenomeni ed eventi, accaduti negli ultimi venti anni, che hanno fatto sì che il nostro vivere insieme passasse da una forma di organizzazione del bene comune - articolato in tutta una serie di beni e di servizi comuni, materiali e immateriali - ad una società che non conosce la cultura del bene comune e si rifiuta anzi di riconoscere che i propri membri possano condividere un certo numero di beni e servizi. Una volta che abbiamo privatizzato le funzioni bancarie, le forme di assicurazione, i meccanismi finanziari, le sementi presenti in natura, il suolo, ecc. non siamo più né gestori né proprietari di alcun bene d’interesse generale. E se non abbiamo più niente in comune, come possiamo fare società? Il bene comune è qull’insieme di leggi, istituzioni, risorse, che consentono ad un gruppo di persone di creare le condizioni affinché i membri della comunità abbiano diritto alla vita e possano salvaguardare il vivere insieme. Si fonda su tre principi: nessuno ha il diritto di essere povero, tutti sono uguali in relazione al diritto di cittadinanza, la sovranità è del cittadino.

Le nostre società invece chiamano perdenti i poveri e fanno della sovranità prerogativa dei consumatori e non dei cittadini. Oggi, la democrazia mondiale si fonda sul consumo e sull’affermazione della negoziazione diffusa. Il consumatore, si dice, attua in una forma più avanzata di democrazia, in quanto vota ogni volta che acquista, e acquista sul mercato mondiale. Il diritto è creato dall’incontro-scontro, dalle convergenze e dagli accordi negoziati fra i soggetti interessati, la ‘soft law’ si fa strada a scapito dell’applicazione del diritto costituzionale e delle leggi votate dai parlamenti, e la ‘governance’ sostituisce l’idea di governo. Solo l’11% di popolazione che consuma, vive insomma in una condizione di eguaglianza e democrazia, l’89% della popolazione mondiale, che partecipa solo per il 12% ai consumi totali, ne è fuori. E, parimenti, solo gli attori dotati di un certo peso e di mezzi per affermare e difendere i propri interessi possono spingere le controparti ad un accordo.

Nelle nostre società di un tempo attraverso le tasse si valorizzava il capitale sociale comune; le tasse ci permettevano di fare investimenti comuni. La funzione allocativa attuale è finalizzata al rendimento efficace del capitale, non alla distribuzione.Oggi si accetta che l’investimento privato sia l’unico motore dello sviluppo economico e sociale. Per il capitale, il lavoro e lo Stato rappresentano dei costi, e la loro minimizzazione diviene una finalità logica.

Ci avevano detto che l’acqua è un bene comune. Eppure, ben 118 governi riuniti all’Aja, in occasione del secondo Forum Mondiale dell’Acqua, hanno sottoscritto un documento che nega all’acqua la qualificazione di bene comune e di patrimonio dell’umanità dichiarandola un bene economico, e che dichiara che l’accesso all’acqua non deve essere più considerato un diritto collettivo umano, sociale e individuale, ma un bisogno vitale. L’accesso all’acqua non è più un diritto attribuito alla persona in modo originario, innegabile e inalienabile, e una responsabilità collettiva, ma un bisogno variabile, a cui ognuno deve provvedere per sé e che può sempre essere soddisfatto pagando. Ogni giorno muoiono 30.000 persone a causa di malattie dovute alla mancanza di acqua potabile. Un parallelo acqua-democrazia non è per nulla infondato o astratto: l’acqua svela i grandi buchi, le lacune della nostra democrazia.

Io vorrei parlare non tanto dell’acqua, quanto prendere l’acqua come esempio di tutta una serie di fenomeni ed eventi che sono accaduti negli ultimi venti o venticinque anni, e come punto di partenza per prendere in esame, sia pure molto sinteticamente, un’altra serie di fatti che si verificheranno nei prossimi venti anni.

In fondo mi è stato proposto di illustrare come sia avvenuto che il nostro mondo sia passato da una forma di organizzazione del bene comune – articolato in tutta una serie di beni e di servizi comuni materiali e immateriali – ad una società che non conosce la cultura del bene comune e si rifiuta addirittura di riconoscere che i membri di una comunità possano condividere un certo numero di beni e servizi. Diciamolo subito: l’analisi della realtà in cui viviamo, ci porta a chiederci come possiamo ancora fare società. Infatti, se continuiamo – tanto per fare un esempio – a privatizzare, come abbiamo fatto, tutte le funzioni bancarie, tutte le forme di assicurazione, tutti i meccanismi finanziari, e quindi non abbiamo più meccanismi di governo (e di proprietà pubblica) di quote di capitali, quale potrà essere la conseguenza? Se privatizziamo anche le sementi presenti in natura, se privatizziamo il suolo, se privatizziamo energie come l’elettricità e il gas naturale, dove pensiamo di arrivare? Stiamo privatizzando gli ospedali, abbiamo privatizzato la vecchiaia (perché ormai ciascuno deve avere la pensione per mezzo di una previdenza individuale), privatizziamo scuola, prigioni, controllo aereo; potremmo privatizzare anche la magistratura e continuare col dire che ormai avrebbe un senso prevedere anche la privatizzazione dell’esercito: ebbene, una volta che abbiamo privatizzato tutto (e siamo già dentro questa logica) che cosa abbiamo più in comune? Se non siamo più né gestori né proprietari di alcun bene di interesse generale, vengono a cadere tutti i legami, perché non abbiamo più niente in comune. É qui che si radica il problema del bene comune. Infatti, se non abbiamo più niente in comune, perché facciamo società? Torno a chiedere: com’è possibile fare società se non abbiamo più niente in comune? Se si analizza tutto questo si può dire che siamo nel mezzo dell’esplosione dei corporativismi individuali e degli interessi settoriali, con la pretesa di ciascuno di essere portatore di una sovranità e di affermare l’universalità specifica. L’interesse dell’agricoltore è universale e specifico, e tale è l’interesse del pensionato o quello dell’azionista, ma non l’interesse del consumatore. Ognuno di quegli interessi è affermato come struttura di valorizzazione unica e di legittimazione ad un comportamento. Allora anch’io come consumatore sono sollecitato a comportarmi in modo coerente, perché il mio interesse di consumatore è di minimizzare i costi di beni e servizi che mi interessa acquistare, massimizzando i benefici che ne ricavo e rimandando alla collettività i costi che non posso direttamente prendere a mio carico. Diciamo allora, che questo è il problema.

Come siamo giunti alla situazione di oggi? Per saperlo bisognerebbe svolgere, non tanto un’introduzione teorica, quanto piuttosto un’analisi pratica.

Ancora quindici o venti anni fa - non è facile fissare riferimenti temporali precisi - tutti noi vivevamo con molti limiti, nella certezza che una società, proprio in quanto tale, dovrebbe essere effettivamente fondata sul bene comune. C’erano principi, istituzioni, risorse e mezzi che definivano sul piano pratico l’idea del bene comune. In fondo il bene comune è, per l’appunto, questo insieme di leggi, istituzioni, risorse, che consentono ad un gruppo di persone, anche molto ampio, di creare le condizioni affinché i membri della comunità abbiano diritto alla vita e possano salvaguardare il vivere insieme. Ecco il principio del bene comune. Questo principio consiste in sostanza, nel fatto che nessuno ha il diritto di essere povero, cioè lo status teoricamente giusto dell’individuo non può essere quello di non avere la capacità di sostenere il proprio diritto alla vita. Quindi, si era pensato, ciascuno ha diritto all’alimentazione, all’acqua, all’abitazione, all’educazione e così via.

Oggi invece abbiamo nel mondo un miliardo e cinquecento milioni di persone che non ha accesso all’acqua, e questo accesso è loro negato in modo totale. Così, rispetto al principio del bene comune, secondo cui nessuno ha il diritto di essere povero, oggi sono in molti ad accettare quasi con passività o ineluttabilità il fatto che il diritto alla vita non appartenga a tutti; e, se vogliamo dare uno sguardo d’insieme e formulare una previsione immediata, possiamo ammettere che molti, forse moltissimi di noi, pensano che fra vent’anni non sarà possibile che, con oltre otto miliardi di persone sul nostro pianeta, il diritto alla vita sia esteso a tutti. Questo è un dato di fatto: riconosciamo che viviamo in una società in cui non tutti avranno il diritto alla vita, per tante ragioni.

Invece il principio del bene comune è che nessuno debba, di diritto, essere povero.

Un secondo principio del bene comune, praticato ancora quindici o venti anni fa in talune società occidentali, è che tutti sono uguali in relazione al diritto di cittadinanza. Si era così tentati di costruire delle società in cui vi fosse compresenza dei diritti di cittadinanza civile, cittadinanza sociale, cittadinanza politica, cioè l’insieme di tutti i diritti sociali e politici necessari per considerarci tutti uguali. Quello dell’uguaglianza è stato uno dei principi fondatori di una società che  si poneva la prospettiva di realizzare il bene comune.

Che cosa dice invece, oggi, il presidente degli Stati Uniti, Bush? Dice che è vero, ci sono nell’Unione quarantadue milioni di poveri, che purtroppo non sono competitivi, non sono qualificati, non hanno voluto sollevarsi, non sono dei winners, non sono stati capaci di affermarsi. Perché nella vita ci sono winners e ci sono loosers. Non è a causa nostra che esistono quarantadue milioni di perdenti: è colpa loro; tutt’al più se ne può avere compassione. Sul piano della compassione questi uomini possono essere affidati alle cure delle organizzazioni caritatevoli; non è compito dello Stato occuparsi di loro. Ed è così che sono state eliminate tutte le forme istituzionali dell’assistenza sociale. Tutto è stato devoluto alle organizzazioni caritatevoli e alle chiese.

Questi sono i primi due principi su cui riposa il bene comune. C’è però anche un terzo principio, ed è la sovranità del cittadino. Non la sovranità del popolo, ma proprio del cittadino. E’ vero che l’organizzazione politica e statuale delle nostre società è fondata sul principio che i cittadini sono sovrani, ma noi oggi affermiamo una cosa diversa, e cioè che la sovranità è anche una prerogativa dei consumatori. Vuoi impedire alla Shell di lasciare in mare la piattaforma petrolifera? Ma cosa vuoi fare? Vuoi rivolgerti ai rappresentanti parlamentari, presentare delle petizioni? Puoi farlo, ma magari il tuo parlamentare è sensibile alle motivazioni della Shell. Come cittadino non puoi fare nulla. Però se, nella tua veste di consumatore, acquisti o non acquisti benzina Shell, allora sì che puoi avere la possibilità di farti sentire, e la Shell ti ascolterà proprio in quanto consumatore. Ecco perché si dice che possiamo essere potenti come consumatori e noi tutti accettiamo di non essere più cittadini, ma consumatori. Allo stesso modo, se siamo azionisti, in questa veste possiamo minacciare la compagnia che riteniamo non corretta, per esempio la Shell o la Total o la Monsanto, dicendo, a seconda dei casi: “io ritiro la mia quota”, oppure “adopererò in un certo modo le mie azioni”. E sarà chiaro che abbiamo un certo potere. Mentre il cittadino che si rivolge al Parlamento chiedendo di emanare una legge, non riuscirà a creare alcun motivo di preoccupazione per queste compagnie.

Ecco perché c’è chi crede di poter parlare di sovranità del consumatore, sostenendo che in quanto tale egli è re, ed attua in una forma più avanzata di democrazia, in quanto vota ogni volta che acquista. Si dice: se compri una Fiat piuttosto che una Volkswagen, hai votato affinché le risorse nel mondo vengano allocate in un modo piuttosto che un altro, e questa sarebbe la forma più avanzata di democrazia, perché si vota continuamente.

Ma che bella democrazia! E tutti coloro che non possono consumare, visto che l’11% della popolazione del mondo (che comprende anche noi) realizza l’86% del consumo mondiale? Allora siamo solo noi, questo 11% di popolazione che consuma, a vivere in una condizione di eguaglianza, a fruire di una situazione di democrazia, mentre l’89% della popolazione mondiale, che partecipa solo per il 12% ai consumi totali, ne è fuori. Ancora una volta torna in primo piano il principio del bene comune, che forse chiama in causa le istituzioni. Queste ultime si configuravano come stato di diritto, fondato su una legge che permane nel tempo e si impone ugualmente a tutti. Oggi, invece, cosa sta succedendo? Stiamo mettendo in campo e promuovendo le soft laws. Soft law significa “diritto leggero”, una legislazione leggera, che lascia da parte la hard law, cioè la costituzione, le leggi votate dai Parlamentari e promulgate per tutti.

Soft law significa che un attore dotato di un certo peso dice ad una o più delle sue controparti: “guardate, è bene che noi ci mettiamo d’accordo”. Cioè si lascia agli stessi attori il potere di decidere. Non esistono più schemi di riferimento rigidi, precostituiti per tutti, cioè leggi universali che si applicano a tutti e durano nel tempo (magari solo venti anni, o cinquanta, ma durano), No: si lascia che il diritto sia creato dall’incontro–scontro, dalle convergenze e dagli accordi negoziati fra i soggetti interessati. Ecco perché siamo stati chiamati tutti stake-holders. L’istituzione presso cui lavoro, la Commissione Europea, in questi ultimi anni ha preso l’abitudine di convocare delle riunioni che chiamastakeholders meetings”. Stake-holders significa “portatori d’interesse”, un calco linguistico che ricorda gli share-holders, cioè i “portatori di azioni”, gli azionisti delle società. E allora qual è il problema? Perché imporre regole di comportamento? Facciamo sedere attorno a un tavolo questi stakeholders, che decidano loro! Ecco perché si parla oggi di governance e non si parla più di “governo”. Governance significa la diffusione dei processi decisionali attraverso le reti di coloro che sono considerati portatori di interessi, e, siccome tutti sono riconosciuti come tali, e tutti devono avere l’opportunità di massimizzare il proprio interesse, la migliore soluzione è quella che siano i diretti interessati, gli stakeholders appunto, a dare le indicazioni dal basso, secondo un indirizzo spontaneo. Così la governance sostituisce il “governo”.

Ma la governance non può avere regole fisse, durature nel tempo, quanto la legge consolidata, la hard law; essa è infatti soft law. Ed ecco perché, per esempio, quando c’è un problema di ambiente, ci si rivolge a quel certo gruppo stakeholders e non si adottano regole di governo. Si dice: fate il vostro codice, diamo fiducia all’autoregolazione del gruppo dei portatori d’interessi. Ecco perché ormai accettiamo che siano le imprese a fare il codice di condotta del lavoro, il codice di condotta commerciale, e così via: così abbiamo auto-regole, auto-discipline, auto-leggi: questa è la soft law.

Perché la giurisdizione corrente delle società americane si risolve fra avvocati? Perché questa è la massima espressione della soft law, questo contrattualismo generalizzato fra i portatori di interesse è considerato oggi la fonte principale di attività. Ecco perché sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea, difendono il concetto-cardine dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che si presenta come una struttura basata sul consenso, sulla partecipazione, sul negoziato: si pensa che occorra questo, una regola partecipata; ed ecco allora i cicli di negoziati. Si ha in mente un negoziato continuo, con l’idea che domani posso mettere in discussione il negoziato che ho concluso ieri. E ciò spiega anche perché i negoziati, come quelli che si svolgono presso l’OMC (Organizzazione Mondiale per il Commercio), siano considerati migliori delle regole intergovernative multilaterali, come quelle che vigono in ambito ONU o in altre strutture rigide. Mentre invece la tipologia degli accordi, che si definiscono in organismi quali: l’OMC, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, ha sempre come base il consenso. E per questo tali organismi vengono considerati “grandi democrazie mondiali”. Dunque l’OMC sarebbe la più grande democrazia mondiale in quanto fondata sul consenso! Dunque senza accordo fra le parti ci sarebbe carenza di democrazia e uno stato di diritto imperfetto.

In passato si parlava di democrazia economica, quale processo di aggregazione e concertazione sociale, e di democrazia politica, il sistema di democrazia rappresentativa con le sue modalità di elezione, referendum e così via.

Oggi abbiamo una democrazia di market. Si dice che la migliore forma di democrazia sia quella diretta, che ad esempio si realizza nel mercato: quando scegli, tu sei! Ecco perché in questo nostro global system, la democrazia diventa mondiale, ecco perché la sovranità nazionale non ha più valore, la sovranità del cittadino si estende al mondo intero: in quanto consumatore, è inserito nel global system, partecipa al sistema mondiale.

Egli allora è cittadino di un mondo complesso e diversificato: la pizza gli viene preparata in Francia in 337 modi diversi, l’automobile viene prodotta con pezzi provenienti da varie parti del pianeta ed è venduta in tutto il mondo. Ti do la global-card, e la faccio in modo che sia solo tua, e che l’automobile che acquisti risulti con chiarezza comprata da te, e così via. Ecco allora che la sovranità nazionale viene superata, aggirata, ed ecco che il market senza confini resta il solo elemento di riferimento.

A questo punto cominciamo a distinguere il market dal no-market. Per esempio, tornando sul tema specifico dell’acqua, consideriamo il caso dell’acqua minerale: la beviamo, ma non c’è nessuno che si batta per un ipotetico diritto di averla. E che differenza c’è tra l’acqua potabile e l’acqua minerale? Se posso comprare al supermercato l’acqua minerale, perché non dovrei comprare domani anche l’acqua del rubinetto? E che differenza c’è tra l’acqua minerale e quella del rubinetto? Così diventa evanescente la caratteristica di no-market per l’acqua, un bene enorme al quale ormai si accosta il concetto di market. Vediamo che la frontiera tra market e no-market diventa sempre più esile, fino a sparire. Tra l’altro la stessa distinzione tra market e no-market è già una vittoria del market, in quanto tutto è definito con riferimento al market e, solo successivamente, si cerca di stabilire ciò che resta fuori del mercato.

Insomma, abbiamo operato nel tempo tutta una serie di cambiamenti che hanno distrutto i fondamenti delle istituzioni. I mezzi di cui disponevamo erano le risorse che avevamo in comune: i beni comuni, ed è su questa condivisione che si fondavano le istituzioni. Tra i beni comuni, se ne distinguevamo alcuni che avevano anche la caratteristica di essere pubblici. Definendoli pubblici si intendeva che proprietà, gestione e cura di tali beni dovessero essere definite come prerogativa esclusiva e responsabilità primaria delle istituzioni pubbliche: vale a dire, dei soggetti pubblici preposti a garantire il bene comune.

Quanto alle risorse, il sistema poggiava su alcuni fondamenti fra cui uno considerato molto importante: il lavoro umano. Fino ad una quindicina di anni fa, quest’ultimo era definito come la principale fonte di produzione capace di creare ricchezza: tutti noi pensavamo che il lavoro umano fosse la principale fonte di ricchezza. Coerentemente con questa impostazione, abbiamo basato il nostro sistema economico sulla priorità del lavoro, sul pieno utilizzo di esso, sulla piena occupazione, fondando su questo assioma il nostro sistema normativo, fiscale, previdenziale, in modo da coprire tutte le spese relative al lavoro: sicurezza sociale, pensioni e così via. Il welfare, in una parola. Ed era un’affermazione incontestata e incontestabile, tanto che la Costituzione italiana dichiara solennemente che il nostro paese è una “Repubblica fondata sul lavoro”.

Dando credito a questa impostazione, dobbiamo avere invece commesso un grave errore, perché attualmente consideriamo che non sia il lavoro, ma il capitale, la principale fonte con cui si crea ricchezza. Ora il lavoro è diventato un costo per il capitale; e si deve ridurre il costo del lavoro per massimizzare il ritorno sul capitale stesso. Se si assume il capitale quale principale fonte che produce ricchezza, tutto il resto diventa un ostacolo, un vincolo, un costo. Allora non si può dire che siamo una Repubblica fondata sul lavoro e si spiega la battaglia dei portatori di capitale per eliminare uno degli elementi caratteristici della legge conosciuta come lo “Statuto dei Lavoratori”, cioè quell’articolo 18 di cui si è tanto discusso.

Si vede chiaramente che lo stesso Stato diviene un costo. Ecco che allora il capitale mette in concorrenza gli Stati, affinché essi diminuiscano le tasse che rappresentano un costo per la sua attività produttiva. Ecco che il capitale si sposta e si trasferisce da un Paese all’altro, cercando lo Stato che abbia il minor costo fiscale. Ecco perché i portatori di capitale dicono allo Stato (e molti ripetono): sei bravo se consenti di massimizzare il rendimento degli impieghi del capitale, anzi la tua funzione fondamentale è quella di creare le condizioni perché il capitale possa essere la fonte principale di produzione della ricchezza del Paese. Ecco quindi che, come abbiamo visto, il lavoro e lo Stato rappresentano oggi dei costi, e la loro minimizzazione diviene una finalità logica. Ed ecco anche perché lo Stato e il lavoro, non sono più un bene comune, e nostra Repubblica non è più fondata sul lavoro.

In passato i mezzi per la gestione del bene comune erano tre: il primo, importantissimo, era l’imposta redistributiva, popolarmente detta la tassa, che aveva la funzione di allocare le risorse in maniera distributiva. Ora invece in funzione di cosa si prende la decisione politica di allocare fondi (provenienti dalla riscossione delle imposte) per esempio per la scuola? In funzione dell’efficacia. Oggi adottiamo un sistema di gestione dell’economia dello Stato, volto ad assicurare l’efficacia dell’allocazione di capitale. E più l’allocazione è efficace rispetto al rendimento del capitale, più affermiamo che i risultati migliorano e quindi che l’economia è perfetta. Non era così fino a non molto tempo fa, quando, per ciò che atteneva alle tasse, sostenevamo il principio che la fiscalità serviva a ridistribuire la ricchezza prodotta in funzione dei bisogni, del conseguimento del bene comune e del diritto di tutti a fruirne in un contesto condiviso. Possiamo pertanto dire che la funzione allocativa attuale è finalizzata al rendimento efficace del capitale, mentre prima, la funzione allocativa era più orientata alla distribuzione. Ecco perché allora le tasse erano importanti e perché grazie ad esse siamo stati capaci di costruire le società del welfare.

Con le tasse si valorizzava il capitale sociale comune; erano le tasse che permettevano di fare un investimento comune. Ora che si afferma che il capitale è la principale fonte di creazione della ricchezza, si accetta anche che l’investimento privato sia l’unico motore dello sviluppo economico e sociale, con riferimento tanto alla città quanto alla regione e all’intero Paese. Conseguentemente consideriamo che l’investimento pubblico non è più causa o motore dello sviluppo di un Paese: anzi, questo tipo di investimento, dovendo trovare nella tassazione la propria fonte di finanziamento, finisce per essere visto come un elemento che compromette l’allocazione efficace del capitale, garantita invece dall’investimento privato.

Ecco che si pensa allora ad attirare l’investimento privato ed ecco anche il motivo per cui si creano i “paradisi fiscali” e si approvano normative volte all’alleggerimento delle imposte. Ecco perché, negli ultimi quindici anni, solo i partiti politici che hanno promesso di ridurre le tasse hanno vinto le competizioni elettorali. Per contro non c’è, in nessun paese del mondo, partito politico che, negli ultimi quindici anni, abbia vinto, avendo promesso di mantenere o addirittura aumentare le tasse. Tutti i gruppi che hanno vinto ci sono riusciti perché hanno promesso di ridurre le tasse. E ancora in questi giorni il primo ministro francese Jospin per vincere le elezioni sostiene che il suo non è un progetto socialista. Il problema è che non si può conciliare il mantenimento, se non addirittura il consolidamento, delle forme del welfare perseguendo contemporaneamente l’obiettivo della riduzione delle tasse. Ricordiamo che il presidente degli Stati Uniti, Bush, quattro giorni prima dell’11 settembre, aveva detto che è eticamente immorale imporre tasse sulle imprese private, vale a dire sull’investimento privato, in quanto esso è la principale fonte di ricchezza degli Stati Uniti.

Il secondo mezzo di gestione del bene comune era la pianificazione. Gli Stati, le società avevano programmi e progetti: si pensava traguardandosi a quindici o venti anni. Ora la pianificazione a lungo termine è fatta solo dalle imprese internazionali e dal mercato finanziario; se ne parla in relazione alle borse e all’orientamento dei fondi di investimento, per un valore complessivo stimato di 2.000 miliardi di dollari al giorno.

Invece che sui 2.000 miliardi che circolano ogni giorno e sono finalizzati a massimizzare i rendimenti, e la cui legittimità si afferma e si giustifica proprio in virtù del fatto che si tratta di 2.000 miliardi, soffermiamoci sul fatto che c’è un miliardo e mezzo di gente che non ha accesso all’acqua potabile. La statistica ci dice che oggi moriranno 30.000 persone a causa di malattie dovute alla mancanza di acqua potabile, e che, di queste 30.000, 12.000 sono bambini e bambine al di sotto dei 14 anni: 12.000 bambini e bambine sono morti ieri, muoiono oggi e moriranno domani. Dall’11 settembre ad oggi, sono già morte 1.250.000 persone per malattie provocate dalla mancanza di acqua. Bene: le persone che gestiscono o comunque guardano a quei 2.000 miliardi di dollari, dopo l’11 settembre ci hanno chiesto di osservare due minuti di silenzio per le vittime innocenti rimaste uccise nel barbaro attacco alle Due Torri. Nessuno di loro però ci ha chiesto di osservare due minuti di silenzio per le 30.000 persone che ogni giorno sono morte, muoiono e moriranno per mancanza d’acqua e per le malattie che ne derivano. Allora le vittime delle Due Torri contano qualcosa, mentre quelle 30.000 persone non contano niente?

Il terzo strumento di gestione del bene comune era la cooperazione internazionale, o intergovernativa, perché si pensava che il mondo dovesse essere organizzato attraverso organismi multilaterali di cooperazione internazionale a livello intergovernativo.

Tutto questo aveva dei limiti, esistevano però determinati strumenti multilaterali. Oggi tali strumenti sono rimpiazzati dal fenomeno bilaterale. L’entrata della Cina nell’OMC trae origine da rapporti bilaterali tra la Cina e gli Stati Uniti.

In questo contesto, qual è la sorte dell’acqua, e che cosa è diventata l’acqua? Ci hanno detto, ad esempio, che l’acqua è come la pioggia meteorica, non è di nessuno, almeno per ora: secondo i mussulmani è un dono di Dio perché viene dal cielo. Nella cultura mussulmana l’acqua non si paga. Anche da noi non si dovrebbe pagare. Imprese specializzate come la Suez (ma anche tutte le altre) proclamano che l’acqua in forma di pioggia, è un bene comune, come pure lo sono i fiumi. Poi però si passa al processo di captazione e distribuzione e tutto cambia radicalmente: l’acqua viene presentata come un bene economico che si deve e si può vendere e comprare.

Si tratta di un cambiamento di impostazione costruito su di un passaggio insostenibile sia sul piano teorico che su quello politico e pratico. Si comincia col dire: siccome ci sono dei costi, vuol dire che l’acqua è diventata un bene economico, quindi deve avere un valore economico. Ora, quando parliamo di valore economico, cosa intendiamo dire? A che cosa stiamo facendo riferimento? A un’economia di solidarietà? A un’economia socialista? A un’economia come quella che si potrebbe attuare in un convento chiuso al mondo, dove la gente che vi abita mette in comune le risorse, cioè condivide? In realtà, richiamando il concetto di valore economico, tutti noi generalmente pensiamo a quel che si definisce un’economia capitalistica di mercato. Così leggiamo sui giornali e nei libri che ogni bene che ha un costo, è implicito che debba avere un valore economico, e precisamente il valore che a tale bene viene attribuito dal mercato: quindi deve avere un prezzo di mercato, cioè il prezzo risultante dall’incontro dell’offerta e della domanda. E questo è il prezzo giusto per il mercato: quello che permette di coprire i costi, tenuto conto del costo totale di produzione, del costo di investimento, del costo del rischio, del rendimento dell’investimento come pure delle tasse.

Ricordiamo che attualmente nel settore dell’acqua, il tasso di rendimento corrente dei servizi di distribuzione dell’acqua è del 15%. Ciò equivale a dire che oggi, per ottenere un valore economico ed un prezzo giusto di mercato, bisogna fissare un prezzo che permetta al capitale investito in questo servizio, di aver il 15% di rendimento netto sull’investimento.

Il tasso di rendimento corrente del servizio di depurazione delle acque reflue è pari al 20%. Nessun portatore di capitale privato investe oggi nella depurazione delle acque reflue se non guadagna almeno il 20% come ritorno medio del suo investimento. E questo ritorno è confermato dalla media mondiale del business di settore.

Ci chiediamo allora: chi fissa questa media mondiale? La risposta è lapidaria: il mercato libero. Ma chi è il libero mercato? Sono Suez e Vivendi. Sono dunque queste due grandissime imprese che hanno stabilito che per essere nella norma ed avere un prezzo di mercato giusto per l’acqua bisogna ricavare il 15% di rendimento dagli investimenti del settore dei servizi dell’acqua. Qui però c’è una mistificazione. Dove? E’ nel pensare che siccome c’è un costo, conseguentemente deve esserci un prezzo. Ma chi ha detto che questa sia una regola ineluttabile? Chi può affermare: “c’è un costo, quindi c’è un prezzo”?

Pensiamo al verbo “amare”. Quando si ama si sopportano dei costi, ma da qui a dire che esista quindi un prezzo di mercato ci corre, e tanto… Se qualcuno facesse un ragionamento del genere, verrebbe da sorridere (o forse irritarsi). E pensiamo anche ad un Comune che decida di aprire una scuola elementare: questa decisione ha un costo, ma il Comune non riverserà questo costo nel prezzo dell’offerta scolastica, chiedendo ai genitori degli scolari di pagare una quota che rispecchi l’ammortamento e il rendimento finanziario dell’investimento (cioè il presunto prezzo di mercato della scuola). Dunque quando c’è un costo, non necessariamente deve esserci un prezzo di mercato. E’ vero che un investimento “pubblico” si può finanziare attraverso i prezzi di mercato, ma è anche vero che può essere finanziato attraverso la spesa pubblica. Ecco perché una scuola viene finanziata con le risorse reperibili nel bilancio comunale, e la scuola così finanziata non si sostiene con i proventi di un teorico prezzo di mercato. La copertura si realizza attraverso il gettito tributario, e in ultima analisi chi decide è il contribuente, che attraverso i sistemi di rappresentanza dei cittadini dice: “sì, voglio versare queste tasse al Comune affinché abbia appropriate disponibilità cumulate, da utilizzare in conformità a quanto si è deciso insieme, e cioè aprire una scuola, il cui costo sarà ripartito in rapporto ai cittadini contribuenti e sarà finanziato attraverso le tasse che io stesso e gli altri cittadini abbiamo stabilito di imporre”.

Allora, se la scelta è questa, il fatto di averci convinto che ad un costo deve necessariamente corrispondere un prezzo di mercato, non è altro che un’imposizione intellettuale, politica e sociale da parte di coloro che oggi sostengono e pretendono il nostro consenso su questo assioma. In questo quadro l’acqua cessa di essere un bene comune, quand’anche in precedenza fosse stata così considerata, e diventa un bene economico.

Ecco perché, quando non molto tempo fa si sono incontrati all’Aja ben 118 governi, riuniti nel secondo Forum Mondiale dell’Acqua, si sono rifiutati di riconoscere che proprio l’acqua è un bene comune e un patrimonio per l’umanità. Hanno detto: “No, l’acqua è un bene economico”; e il rappresentante italiano ha affermato che la definizione di cosa fosse l’acqua non era poi tanto importante, visto che gli accordi su di essa si fanno comunque altrove. Il governo italiano ha firmato. L’acqua ormai non può più essere vista come un bene comune, va trattata come un bene economico. Resta il fatto che gli stessi governi che hanno sottoscritto un documento che dichiara che l’acqua va considerata un bene economico, negandole la qualificazione di bene comune e di patrimonio dell’umanità, hanno detto che l’accesso all’acqua non deve essere considerato un diritto collettivo umano, sociale e individuale, ma un bisogno vitale. Ma c’è una grande differenza fra bene comune, diritto e bisogno. Un diritto è attribuito alla persona in modo originario e quindi le appartiene in quanto essa esiste, e nessuno deve autorizzare nulla, né deve farle credito, perché in quanto persona quel soggetto esiste e basta, ed ha i propri diritti innegabili ed inalienabili. Non c’è governo, né parlamento, né papa, né presidente di qualsivoglia istituzione che possa interferire, né occorre un qualsiasi riconoscimento da parte di un mercato finanziario mondiale. La persona ha il suo diritto e basta.

Facciamo un esempio. Molti hanno in casa un gattino e gli danno regolarmente da bere, altrimenti morirebbe. Questi gattini non sono sindacalizzati, non si riuniscono in gruppi di rivendicazione del loro diritto. E’ chiaro: diritto all’acqua vuol dire diritto all’acqua. Così l’acqua viene data a questi animali perché si sa che altrimenti morirebbero. Anche per i sei miliardi di abitanti del nostro pianeta è la stessa cosa. Ne hanno diritto, tutti abbiamo diritto alla vita, e non dobbiamo dimostrare alcunché.

Invece il bisogno è diverso, il bisogno varia: intanto ci sono soggetti diversi, come chi è di corporatura massiccia e chi è magro. Chi è sportivo e chi no, chi è vecchio e chi è un bambino; inoltre il bisogno va affermato e difeso da ciascuno di noi, mentre l’accesso al diritto è responsabilità della collettività, l’accesso alla soddisfazione di un bisogno è legato alla responsabilità personale: innanzi tutto, in linea di principio, devi provvedervi tu stesso. I bisogni sono differenti, non è possibile stabilire a priori delle regole universali.

Qui potremmo ricordare gli operatori della soft law, dei quali abbiamo parlato prima, che scavalcano la hard law: ciascuno ha il proprio bisogno e agisce come può e come vuole per soddisfarlo, ma sostanzialmente, se si vuole soddisfare un bisogno, si deve pagare. Voglio avere cento litri di acqua al giorno? Bene, non posso dire di avere diritto a cento litri, questo è il mio bisogno, ma se consumo cento litri devo pagare questo consumo. Proseguendo su questa linea si enuncia quindi il principio che il consumo si paga, e che chi inquina, paga: principi orribili, principi assolutamente inconcludenti e controproducenti. Non si può dire che se paghi puoi consumare quanto vuoi. Se c’è una realtà che stabilisce che non devi consumare oltre un certo limite, non è possibile superare questo limite pagando una cifra anche molto alta: non è che se paghi un milione di euro puoi spingere la tua automobile a 190 km/h. In Svizzera se superi i 140 km/h ti tolgono la patente, e non puoi offrire al poliziotto che ti ha fermato, di pagare 10.000 franchi svizzeri, e fare un negoziato sulla base di concetti di soft law, come se si fosse tra stakeholders. Se è un buon poliziotto ti ritira la patente e applica la hard law di sua competenza. Allo stesso modo, non è in virtù del pagamento di una somma che puoi consumare tutta l’acqua che vuoi. Soprattutto quando sappiamo che certi usi sono causa di inquinamento o di distruzione che coinvolgono anche gli altri. Allora, anche pagando, non puoi farlo, non puoi avere un consumo illimitato.

Ed ecco che questo diritto cambiato in bisogno fa sì che l’acqua diventi merce, e che, se l’acqua diventa merce, è l’accesso alla vita che viene mercificato. Ora c’è chi non ha accesso all’acqua perché là dove vive ce n’è poca o non ce n’è affatto, e questo è un problema che va risolto.

Allora, concretamente, cerchiamo di capire in che termini si pone questo problema per quella parte di umanità, 1.500 milioni di persone, che non ha accesso all’acqua, a fronte di un’agricoltura molto attiva oggi sul nostro pianeta. Agricoltura che sta distruggendo risorse, dato che il 70% dell’acqua dolce utilizzabile viene impiegato proprio in questo settore, contro il 20%  utilizzato per l’industria e il 10% per il consumo idro-potabile e usi connessi. L’attuale agricoltura è ad alta intensità chimica, ad alta intensità energetica, ad alta intensità di esportazione. Beve il 70% delle acque dolci del mondo e con questa sua sete infinita le distrugge. E’ un’agricoltura che possiamo definire di “surplus”, praticata e sviluppata non per dare alimentazione agli uomini e alle donne, in quanto la sua funzione primaria non è quella di fornire cibo ma di produrre per ulteriori impieghi. Questa agricoltura produce calorie sufficienti per una popolazione globale di sei volte superiore a quella attuale, mentre davanti ai nostri occhi ci sono milioni e milioni di persone che muoiono di fame. Orbene, non è un problema di distribuzione di derrate alimentari, è un problema di produzione. Dobbiamo renderci conto di che cosa si produce. Consideriamo l’insieme delle terre agricole e come vengono utilizzate, anche in Africa, in America Latina, in Asia… Il 62% delle terre coltivate serve a produrre alimenti per l’esportazione, non ad ottenere prodotti di uso locale per bisogni locali. La cultura attuale non risponde alla funzione di dar da mangiare agli affamati, risponde ad un’altra finalità: si producono beni, servizi agricoli, derrate e prodotti per destinarli ad ulteriori trasformazioni allo scopo di aumentare il rendimento del capitale investito. Questa è la logica del sistema. I produttori se ne fregano completamente di sapere cosa producono e per chi producono. Producono per noi, per i Paesi più sviluppati, e questo vale sia per l’agricoltura in occidente sia per quella del terzo mondo. Si produce “surplus”.

Noi finanziamo il “surplus” con sussidi, un “surplus” che nel terzo mondo è diventato d’obbligo produrre, con la conseguenza dell’abbandono della cultura autoctona, e obbligando quei paesi a chiedere denaro a noi, all’occidente, per finanziare le loro attività di esportazione così indotte. Non solo: per questi prodotti da esportazione i Paesi del terzo mondo hanno bisogno di acqua, perché noi li induciamo a coltivare prodotti ad alto consumo d’acqua, proprio quell’acqua che non hanno. Noi finanziamo nei loro Paesi colture che distruggono l’acqua e loro si indebitano.

L’agricoltura in questo momento è l’espressione più irragionevole, più sconsiderata e meno sostenibile delle attività umane su questo pianeta.

Poi c’è l’acqua che consumiamo e che ci viene proposta ormai unicamente in funzione del costume dominante: è noto che gli italiani non bevono quasi più acqua del rubinetto a tavola; noi italiani siamo i primi consumatori al mondo di acqua minerale in bottiglia. Quest’acqua minerale, che ci viene presentata con moltissimi nomi e marchi diversi, in realtà è imbottigliata, confezionata e immessa sul mercato da imprese multinazionali come la Nestlè o la Danone: non è dunque italiana, non è più un prodotto del capitale italiano. Con i nostri consumi così alti, noi italiani siamo un mercato molto interessante sia per la Nestlè che per la Danone. Per avere un’idea del drenaggio di denaro che si realizza in questo mercato, basta confrontare i prezzi: un litro di acqua minerale Ferrarelle costa al dettaglio, in media, sulle 850 lire (cioè 0,439 euro), San Pellegrino 880 lire (pari a 0,454 euro) e Perrier addirittura 2.814 lire al litro (corrispondenti a 1,453 euro, ma di quest’acqua in Italia c’è un consumo marginale). Però l’acqua potabile che ci arriva a casa, mediamente costa 1874 lire (0,954 euro) al metro cubo, cioè 1,8 lire al litro. Facendo un confronto di prezzi, ci accorgiamo che gli italiani accettano di pagare l’acqua in bottiglia circa 500 volte il prezzo dell’acqua del rubinetto. E questo anche se l’acqua del rubinetto è più sana e più pura dell’acqua minerale, dato che quest’ultima non è considerata potabile dalla legislazione europea.

L’acqua minerale nella normativa europea, è un’acqua speciale, naturale, da sorgente, con alcune caratteristiche specifiche: minerale, poco minerale, oligominerale, e così via. Deve essere analizzata ed esporre in etichetta la quantità e il tipo di elementi presenti, ma non è tra le acque definite “potabili”, cosicché in quella minerale sono accettate sostanze come l’arsenico, il sodio, il potassio e così via, in proporzioni che sono assolutamente, rigorosamente vietate nell’acqua potabile. Inoltre, non c’è l’obbligo di apporre in etichetta la menzione “acqua potabile”, perché, appunto, non si tratta di acque potabili.

Ad esempio, il contenuto di sodio dell’acqua può avere effetti sulla salute di un soggetto che abbia la pressione arteriosa troppo alta. Ecco perché molti medici raccomandano di non bere mai regolarmente la stessa acqua minerale. Dovrebbe essere bevuta sotto controllo medico, in quanto l’uso costante, per anni, della stessa acqua minerale può dare luogo ad effetti indesiderati, anche se oggi insospettati.

L’acqua minerale, dunque, non è più pura di quella del rubinetto (che è soggetta a controllo specifico) e non è più sana. Ora avviene che, nel mondo occidentale, la pubblicità delle acque minerali sia al secondo posto dietro solo a quella delle automobili. Si tratta però di uno scandalo perché l’acqua minerale – allo stato di acqua sorgiva – è un bene pubblico, dello Stato e delle Regioni, vale a dire che è di tutti i cittadini. Quest’acqua viene imbottigliata in regime di concessione e la Regione che assegna la concessione, riceve un corrispettivo che non raggiunge il valore di 1 lira al litro, cioè 0,00052 euro. Invece, la società che commercializza l’acqua minerale fa pagare al consumatore finale un prezzo medio di 0,45 euro al litro. Non solo, l’acqua viene sigillata e trasportata in bottiglie per lo più di plastica, di PET, il cui riciclo costa 200 lire l’unità (pari a 0,103 euro): l’80% del totale delle acque minerali è commercializzato in PET, mentre il restante 20% in vetro, con un riciclo che costa soltanto 50 lire (0,026 euro). Ma chi paga questi costi di riciclaggio? Prevalentemente l’amministrazione pubblica, cioè quella stessa entità che riceve quei diritti di concessione così bassi di cui prima abbiamo parlato.

Per concludere: quali possono essere le proposte? A mio parere occorre che il cittadino si organizzi. Ed ecco perché, tra tante altre cose, io ed altri abbiamo dato vita a tutta una serie di associazioni, di comitati per il contratto dell’acqua: ci battiamo contro le privatizzazioni dell’acqua, e riusciamo ad ottenere dei risultati. Posso citare alcuni esempi. In Bolivia di recente, c’è stata una rivolta politica perché il Governo voleva privatizzare la distribuzione dell’acqua nella città di Cochabamba e la gente ha ottenuto che questa privatizzazione non si facesse.

Pochi giorni fa a New Orleans il movimento dei “public citizens”, che fa parte del Comitato Internazionale per il Contratto dell’Acqua che io ho fondato, è riuscito ad impedire la privatizzazione della distribuzione dell’acqua in quella città.

Io stesso dieci giorni fa ero in Canada, nel New Brunswick, dove abbiamo portato avanti una lotta politica tendente a impedire che il Comune di una grande città, procedesse alla privatizzazione dei servizi così come stava facendo. La nostra richiesta è stata accettata, e il 4 marzo 2002 il Consiglio Municipale ha deciso di interrompere i negoziati fra il Comune, la città, e il sindaco che stava per fare un contratto senza gara d’appalto e senza dibattito politico, e di  indire  una pubblica consultazione della durata di tre mesi. Ai cittadini è stato chiesto di esprimersi  attraverso  un referendum sulla privatizzazione o meno dell’acqua.

Un altro esempio è la città francese di Grenoble, dove i cittadini sono riusciti a riconquistare la gestione indiretta dei servizi dell’acqua, fatta in economia. Sempre in Francia, in questo momento, ci sono 44 città che stanno tentando di recuperare la gestione indiretta.

Ad Anversa il nostro comitato belga per il Contratto dell’Acqua ha frenato e interrotto il processo in corso di privatizzazione della distribuzione dell’acqua nella città e si sta dando da fare con successo.

In India annoveriamo alcuni esponenti politici, comeVandana Shiva, fra i nostri associati nei comitati locali per il contratto dell’acqua e siamo riusciti a impedire una serie di privatizzazioni nel campo della distribuzione idrica.

Questi esempi non sono stati citati a caso: voglio dire che i cittadini, quando si organizzano, vincono, almeno nella maggior parte dei casi; perdono invece quando restano abulici. Si vince soprattutto quando ci si batte per degli scopi che appaiono saggi, come il rigetto della privatizzazione, a patto che i termini della questione siano chiari alla gente.

Da questo scaturisce un altro insegnamento, che potremmo articolare in alcuni principi:

1° principio: far conoscere tutti i trattati, tutte le costituzioni e tutti i patti che regolano la questione dell’acqua nei suoi termini esatti. Non c’è nessuno che conosca questo, per il momento.

2° principio: far riconoscere e comprendere che il diritto dell’acqua, in ragione di 50 litri al giorno per usi domestici, è un diritto inalienabile per tutti i 6 miliardi di persone che popolano oggi il nostro mondo, così come sarà un diritto, per quegli 8 miliardi di persone, che saranno in vita fra 20 anni. Ecco dunque che bisogna far sì che questi 50 litri al giorno per uso idro-potabile siano riconosciuti come un diritto e siano assunti a carico dalla collettività.

3° principio: il finanziamento di questi 50 litri al giorno per uso idro-potabile domestico, deve essere preso a carico della collettività attraverso il sistema di tassazione e le altre forme di reperimento di fondi da parte delle pubbliche istituzioni.

Noi, come comitato Internazionale per il Contratto dell’Acqua, proponiamo un’imposta a più livelli (locale, nazionale, mondiale) sull’acqua, tipo tassa Tobin.

Il diritto di 50 litri al giorno, per uso idro-potabile che va inteso rigorosamente come legato ad ogni persona, non è a sé stante: ad esso si accompagna un diritto ad un quantitativo di 1.700 metri cubi l’anno pro-capite per tutti gli usi di sopravvivenza umana comprese le colture agricole non speculative e così via. Anche questo diritto deve essere considerato come inerente ad ogni insediamento umano e a ciascun gruppo umano, perché questa è la quantità di acqua che assicura il minimo vitale. Al di sotto dei 1.700 metri cubi pro-capite all’anno, si entra in una situazione di carenza idrica e sotto i 1000 metri cubi pro-capite all’anno si parla di crisi idrica cioè si può incominciare a morire per malattie dovute alla carenza  d’acqua.

Il riconoscimento del diritto all’acqua, nelle quantità che abbiamo detto, non è soltanto teoria: è tecnicamente possibile tanto sul piano concettuale quanto a livello pratico.

Ragioniamo un momento su quest’osservazione e soffermiamoci sui problemi operativi e intellettuali che gravano oggi sulla democrazia e creano serie difficoltà. Ci rendiamo conto che un parallelo acqua-democrazia non è per nulla infondato o astratto: l’acqua svela i grandi buchi, le lacune della nostra democrazia. Allora vogliamo far sì che ci si rimetta in discussione, si reinventi la nostra organizzazione civile, ci si riappropri della democrazia rappresentativa a tutti i livelli territoriali.

Possiamo riaffermare che l’acqua e gli altri servizi pubblici sono per eccellenza oggetto di una partecipazione diretta e di un controllo di valutazione permanente da parte dei cittadini e che la delega per la durata di quattro anni – tipica della democrazia rappresentativa - non è sufficiente. Continuando, dobbiamo dire che partendo dall’acqua si scopre un problema che a mano a mano che lo si esamina rivela sempre maggiori difficoltà e connessioni con altri aspetti tutt’altro che secondari. Ci rendiamo conto che, partendo dall’acqua, emerge la necessità di rivalutare la democrazia locale e quindi salire i vari livelli della democrazia mondiale. Lo strumento di attuazione della democrazia a questo più alto livello potrebbe essere un Parlamento mondiale dell’acqua, una specie di autorità sopranazionale capace di farsi carico della regolamentazione dei problemi dell’acqua e di operare come un organo di risoluzione dei nodi e delle controversie politiche, davanti al quale si potrebbero portare le dispute fra paesi e gruppi di paesi.

L’idea di dare vita, per questa via, ad un organo avente lo scopo di porre ordine fra istanze di diritto e di essere regolatore tra soggetti in disputa, risponde alla percezione esatta che soltanto tale tipo di organismo possa tradursi in soggetto dotato della forza di essere attore politico mondiale e di un potere reale sul un piano internazionale. D’altra parte, una cosa di questo genere si sta facendo con l’OMC per il commercio, perché non si dovrebbe fare per l’acqua?
 

[1] Testo non rivisto dall’autore.


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