PREFAZIONE

  Raffaele Porfidia

Presidente dell’Associazione per la Ricerca e la Comunicazione ARCO

 

Le Nazioni Unite hanno promosso e approvato una serie di trattati internazionali per sancire la non appropriabilità della luna, di altri satelliti, dello spazio esterno alla Terra. Altri trattati riconoscono che i fondali marini e l’Antartide non sono assoggettabili alla sovranità di un singolo Stato, ma costituiscono uno spazio a cui tutti possono accedere. Altri negoziati internazionali incominciano a porre al centro dell’attenzione il problema dell’uso corretto dei beni comuni, come l’atmosfera, nella quale non si può scaricare ad esempio ossido di carbonio a piacimento.

Ed ecco il ragionamento di Giovanni Franzoni, nel libro “Anche il cielo è di Dio”, il quale ricorda, come fosse il filosofo inglese John Locke, nel secondo dei suoi Trattati sul governo (1960), citando il Salmo 115, v. 16 della Bibbia (“Dio ha dato la terra all’umanità in comune”), che giunse ad affermare che quando si trae qualcosa dalla natura con il proprio lavoro si può acquisire la proprietà della cosa, ad alcune condizioni:

che ne resti abbastanza e di uguale qualità per gli altri

che non sia comunque possibile eccedere fino allo spreco.

Locke non poteva prevedere che le risorse della Terra fossero esauribili e che, in base ai suoi principi, avrebbero dominato proprio lo spreco e la distruzione dell’ambiente e della biosfera, ma resta il fatto che sulla base di tali principi si è ampiamente sfruttata molta parte del mondo.

I criteri di Locke sono accettati criticamente dagli economisti di oggi. Così Robert Nozick (Anarchy, State and Utopia Oxford 1974) obietta che la semplice applicazione del lavoro ad un bene comune non può dare il diritto di acquisirlo in proprietà, ma occorre la compresenza di alcuni titoli procedurali:

un principio di giustizia nell’acquisizione originaria

un principio di giustizia nel trasferimento della proprietà da un soggetto all’altro

un principio di rettifica se i precedenti principi sono stati applicati imperfettamente.

Questo terzo principio diventa oggi fondamentale, perché la disuguaglianza e la povertà che contraddistinguono il mondo moderno non possono che nascere dalla disapplicazione – quanto meno – del criterio di giustizia posto a base delle due prime enunciazioni. Sempre di più, quindi, mentre si restringe fino ad annullarsi il diritto di acquisire come proprietà il bene comune, attraverso l’uso senza contropartite da parte di singoli soggetti – siano imprese industriali nazionali o transnazionali o enti istituzionali di varie caratteristiche – si sviluppa e mette radici la necessità e la logica di dare campo ad un nuovo sistema che ristabilisca giustizia nell’utilizzo del bene comune. Da qui trae origine la proposta di creare nuovo diritto internazionale per regolare quest’uso e istituire anche forme di pagamento di una imposta internazionale da destinare alle perequazioni dei diritti di partecipazione allo stesso bene comune, a favore di chi non può accedervi anche se ne avrebbe titolo.

Nasce in tal modo l’idea di un Fondo per la perequazione del debito e per lo sviluppo, alimentato da questa tassazione internazionale e gestito dalle Nazioni Unite. Lo stesso Fondo che potrebbe anche ricevere altri apporti, come le ricadute dei debiti condonati ai Paesi in via di sviluppo, per i quali oggi giustamente si sta conducendo la campagna del condono. Oppure il gettito, in tutto o in parte, di una futura imposta come la Tobin tax, o ancora altre opportunità, come vere e proprie royalties che potrebbero essere riconosciute a livello globale nei confronti di non pochi Paesi del Sud. Una soluzione che consentirebbe un notevole salto di qualità, perché il riconoscimento del diritto a partecipare in concreto al godimento del bene comune è un passo avanti rispetto alla pura e semplice remissione dei debiti e può essere ricco di frutti sia per chi offre le risorse sia per chi le utilizza, nel rispetto comune di criteri di equità giuridicamente riconosciuti.

Progettualmente, tutto ciò si traduce nella necessità di creare nuovo diritto internazionale. Non ci si nascondono le difficoltà: resta tutta via il riconoscimento che ogni innovazione sarà necessariamente preceduta da un travaglio culturale, che talvolta può trarre linfa e giovamento dalle contingenze storiche. Oggi viviamo un momento di nuove consapevolezze, per cui pubblicamente ci si chiede come sia possibile superare gli squilibri che sono presenti e addirittura crescono nel mondo e già si cerca di creare nuovo diritto come con il tribunale penale internazionale, i tentativi della conferenza di Marrakesh sull’ambiente, e così via.

Il diritto internazionale nasce essenzialmente da Trattati e Convenzioni internazionali. È dunque una gestazione difficile, le radici prime sono nei rapporti di politica internazionale che continuativamente vanno formandosi e consolidandosi, però proprio la formazione del diritto trova alimento e ragion d’essere nella consapevolezza diffusa di ciò che viene inteso come giusto, utile, valido, ecc. Qui si urta contro due ostacoli: gli interessi politici ed economici dei paesi dominanti e le concezioni teoriche proprie degli stessi paesi dominanti (essenzialmente il neoliberismo). Però la costruzione di una dottrina del diritto internazionale, che parta dai trattati esistenti ed in fieri, ne colga gli elementi ispiratori riconducibili ad una radice comune, ne metta in luce la logica che ha generato queste proposte, può dar luogo ad ulteriori proposte collettive di più paesi che si facciano promotori di trattati in sede ONU o in altri consessi mondiali o regionali. Creare diritto internazionale significa quindi creare una dottrina condivisa su determinati argomenti, che al livello di rapporti internazionali verranno trasformati in proposte scritte. Il processo è lento e difficoltoso, ma è impossibile prescindere ed è proprio la globalizzazione della comunicazione che consente di favorirlo.

 

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